di Bianca Foscarini

Dopo solo un mese e mezzo come consulente del Miur, l’ex coordinatore del Cts lascia anche il ministero dell’Istruzione: «Ho assolto il mio compito. La mia ricetta per una scuola sempre più sicura? Test a tappeto e mascherine Ffp2».

È sempre stato il paladino dei movimenti dei genitori pro scuola in presenza, visto che ha sempre dichiarato che le scuole devono restare aperte. D’altra parte, quel “rischio ragionato” di cui ha parlato Draghi per giustificare il ritorno degli studenti tra i banchi, a fine aprile, lui lo proclamava da mesi. Però Agostino Miozzo, già coordinatore del Cts, dopo solo un mese di incarico come consulente al Miur ha presentato le dimissioni al ministro Bianchi. 

Miozzo, perché lascia il Miur? 

Ho accettato l’incarico per aiutare il ministro Bianchi a riportare i ragazzi sui banchi di scuola, ma soprattutto per contribuire a riportare il dibattito sulla scuola a un livello politico. Credo che questo, nel bene e nel male, sia avvenuto: il presidente Draghi ha messo la scuola tra le priorità del suo Governo e il tema oggi è al centro del dibattito pubblico. Penso dunque di aver raggiunto il mio obiettivo. Ora sono stanco e penso che il mio tempo sia scaduto, il ministro ha un’ottima squadra di collaboratori. Il mio vecchio capo alla protezione civile, Guido Bertolaso, quando manifestavo reticenza a lasciare un progetto mi ripeteva sempre che i cimiteri sono pieni di persone indispensabili. Una lezione di vita che mi porto ancora appresso…

I ragazzi delle superiori, però, non sono tornati tutti in aula… 

Non ragionerei sulle percentuali. L’obiettivo di riportare i ragazzi a scuola è sostanzialmente acquisito, con l’eccezione di alcune Regioni che hanno agito in autonomia facendo scelte diverse. Un fatto che, nella mia personale opinione, è pericoloso: trovo imbarazzante che un singolo Governatore possa prendere decisioni in contrasto con le direttive del Governo su un diritto previsto dalla nostra Costituzione come quello all’istruzione. Questa anarchia è inaccettabile. Perché il ragazzo che vive in Basilicata deve avere un trattamento diverso dal compagno che vive in Puglia, magari a pochi chilometri di distanza? È assurdo. Che lo Stato si prenda la responsabilità di respingere le ordinanze regionali. Esiste il potere di sostituzione, bisogna avere la forza e il coraggio, in situazioni estreme, di metterlo in pratica. In ogni caso, a parte le decisioni unilaterali di alcune Regioni, credo che la risposta del mondo politico e del territorio alla riapertura sia stata sostanzialmente positiva. 

Lei dice? Io noto invece una sorta di terrore diffuso, in Italia, sulla riapertura delle scuole. Si dubita che siano sicure. Lei cosa ne pensa?

È inutile negarlo: quando si muovono 10 milioni di persone, tra studenti e personale, un aumento del rischio c’è. Bisogna però distinguere tra il rischio extra scolastico, per esempio sui mezzi pubblici e nelle aggregazioni fuori da scuola, e il rischio in aula. La mia opinione è che l’ambiente scolastico sia un ambiente molto controllato: i ragazzi indossano correttamente la mascherina, stanno distanziati e si igienizzano periodicamente le mani. Lo abbiamo detto più volte: il rischio zero, a scuola come altrove, non esiste, ma dobbiamo lavorare in tutti i modi per ridurlo. 

E questo come si può fare?

Questo si fa con i test a tappeto per individuare gli asintomatici, lavorando ancora sul trasporto pubblico, lavorando sugli assembramenti all’uscita da scuola. Io ricordo con affetto straordinario il “muretto” fuori dalla scuola, sul quale da piccolo giocavo a biglie e poi, una volta cresciuto, scambiavo le prime sigarette. Però dobbiamo spiegare ai giovani che adesso non è il momento di rimanere a chiacchierare fuori da scuola abbassando la guardia.

Quali sono in concreto le misure per una scuola in sicurezza che ha proposto al ministero dell’Istruzione?

Sicuramente il potenziamento dell’attività di testing, grazie ai test rapidi e ai salivari molecolari. Questo era un mio pallino da molto tempo, mi avevano sempre risposto che era difficile immaginare test per 8 milioni di ragazzi. Eppure, i salivari li fanno in tutta Europa e anche in Italia abbiamo esempi virtuosi, come nel Lazio, a Bolzano e a Bollate. Sperimentazioni se vogliamo frammentarie e poco concertate, io avrei preferito che si dessero indicazione nazionali su come condurre questi test, ma anche così si tratta di esperienze molto promettenti. L’importante è che oggi ci sia la consapevolezza che esiste uno strumento che riduce il rischio a scuola.

I test rapidi sono veloci ma meno precisi, quelli salivari molecolari non sono rapidi ma sono affidabilissimi e non richiedono personale. Quali dei due intendete privilegiare? E soprattutto, saranno usati come mezzo di diagnosi sui sintomatici e sui contatti di positivi o anche come screening preventivo sugli asintomatici?

L’uso che si vuole fare di questi test è per screening di massa, altrimenti non avrebbero scopo. Ovviamente sempre su base volontaria, anche se la provincia di Bolzano ne ha fatto una condizione necessaria per accedere a scuola, garantendo la Dad a chi non aderisce. Quanto alla differenza tra tamponi antigenici rapidi e salivari molecolari, li ritengo entrambi strumenti validi. I test rapidi non sono precisi al 100%, ma hanno senso quando si testano grandi popolazioni, come quelle scolastiche. In uno screening di massa individuano comunque almeno il 90% di positivi, non è poco.

La sanità italiana può permettersi test a tappeto sugli studenti?

In farmacia un tampone rapido costa 20 euro, ma se ne compri 200 milioni costeranno di meno. La Germania ha fatto ordini per miliardi di tamponi, ottenendo prezzi vantaggiosi dalle ditte, quasi tutte cinesi, che li producono, perché ha adottato una politica di controllo della pandemia anche a partire dalle scuole. Abbiamo presente quanto si è speso per le compensazioni che sono state date alle famiglie, come i bonus baby-sitter? Quanto costano i permessi lavorativi che i genitori sono costretti a chiedere? E i posti in terapia intensiva? 

Non pensa che i protocolli per le quarantene, peraltro diversi da Regione a Regione, in alcuni casi siano un po’ troppo rigidi e fungano da deterrente sull’esecuzione dei test? Tante famiglie, di fronte al rischio di quarantene lunghe 14 giorni, preferiscono non sapere…

Sono assolutamente d’accordo. I protocolli di identificazione e di isolamento dei postivi sono stati stabiliti un anno fa dall’Istituto superiore di sanità, da allora si sono fatti passi avanti nella conoscenza del virus e i protocolli possono essere aggiornati. È una delle richieste che il ministero dell’Istruzione dovrà fare al ministero della Salute e all’Istituto superiore di sanità.

Tra le misure di sicurezza per il prossimo anno si è parlato anche dell’obbligo di mascherine Ffp2 per docenti e alunni e di sistemi di ventilazione meccanica delle aule…

Sono entrambe proposte che sono state presentate al Cts. Sappiamo che alcune mascherine, come quelle di stoffa, le cosiddette mascherine di comunità, presentano criticità, sostituirle con le Ffp2 darebbe più garanzie. Ma le cose semplici sulla carta non lo sono mai nella realtà. Distribuire le Ffp2 a tutti significherebbe averne a disposizione 10 milioni al giorno, una quantità esorbitante che potrebbe non essere semplice da reperire sul mercato. Un’altra ipotesi, più fattibile, sarebbe renderle obbligatorie solo per i docenti. Anche agire sui sistemi di ventilazione non è facile: un tipo di ricambio come quello che si ha sugli aerei è praticamente impossibile da realizzare negli ambienti chiusi e dotare le scuole di depuratori significa risolvere problemi logistici a volte insormontabili. Pensiamo solo a cosa vorrebbe dire istallare un sistema di ventilazione forzata in una scuola del centro storico di Perugia o di Firenze.

Cosa si sta facendo invece sul fronte del distanziamento? 

Il risanamento degli edifici scolastici, con l’ampliamento delle dimensioni e del numero delle aule, è un problema risolvibile solo sul lungo periodo. Nel frattempo, la soluzione potrebbe essere dislocare gli studenti in edifici alternativi: ci sono spazi enormi del demanio pubblico che potrebbero essere utilizzati, penso alle caserme. Si tratta di fare un serio progetto e di mettere a disposizione gli spazi, che vanno ovviamente adattati allo scopo.

Siamo già di nuovo in terribile ritardo per settembre…

L’anno scorso, come Cts, abbiamo fatto l’elenco degli interventi necessari nelle scuole già ad aprile. È un anno che parliamo di distanziamento, quindi non capisco come presidi e amministratori locali possano sostenere che noi tecnici chiediamo le cose dall’oggi al domani. Ci voleva una settimana perché ogni scuola quantificasse le eccedenze. Alla tale scuola mancano 5 aule? Benissimo, il preside deve attivarsi presso gli amministratori locali, il sindaco, la Prefettura, il ministero dell’Istruzione piuttosto che della difesa o qualunque ente che dispone di spazi liberi, per individuare soluzioni alternative. Mi sarei immaginato almeno un tentativo di soluzione di queste problematiche, ma in molte parti del Paese non è stato così. 

Le scuole paritarie, per esempio, dispongono di molti spazi. Vede possibile una sinergia con le scuole statali?

Le scuole paritarie sono previste anche dalla Costituzione. La sinergia c’è sempre stata e deve continuare, con l’attenzione però a dare priorità e garanzia al diritto allo studio. Le paritarie si pagano, questa non può essere una discriminante.

L’impegno per mettere in sicurezza le scuole è doveroso. Ma lei non crede che per le scuole si pretendano garanzie che non si chiedono ad altre comunità, come le aziende? L’impressione è che ci sia una vera e propria psicosi sulla scuola: come combatterla?

Il primo problema è che i ragazzi non votano. Se lo facessero, visto che sono 8 milioni, un settimo della popolazione italiana, le condizioni sarebbero diverse. Quello che mi preoccupa, dell’atteggiamento del Paese verso la scuola, è la pericolosa contrapposizione tra sopravvivenza economica da una parte e istruzione dall’altra. Il diritto del ristoratore a lavorare è sacrosanto, dato che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma anche il diritto del ragazzo ad andare a scuola. Sono entrambi diritti costituzionali, non è possibile stabilire una gerarchia. Contrapposizioni di questo tipo sono tipiche dei Paesi poveri, dove non si possono mandare i bambini a scuola perché devono andare al pozzo a prendere l’acqua per la famiglia. Ma noi siamo più un Paese povero, siamo la settima potenza mondiale, non siamo più costretti a scegliere se mandare i figli a scuola o morire e non dobbiamo esserlo, nemmeno in pandemia. È pericoloso dal punto di vista sociologico, culturale e politico. 

La scuola, anzi, è un argine all’aumento della povertà… 

Certo e invece la didattica a distanza accentua le diseguaglianze, non solo nell’apprendimento. Con le scuole chiuse centinaia di migliaia di bambini in Italia hanno perso l’unico pasto caldo ed equilibrato della loro giornata.

Senza contare il dramma che molte famiglie stanno vivendo con adolescenti che manifestano grandi sofferenze a livello psicologico. Alcuni non escono più dalle loro camere. Tentati suicidi e atti di autolesionismo sono in aumento…

Purtroppo, io non sento i politici parlare spesso di questi problemi. I drammi del ristoratore e dell’artista potranno e dovranno avere delle compensazioni economiche. Ma il danno sui ragazzi come si potrà compensare? Ci rendiamo conto che avremo migliaia di ragazzi con turbe della psiche che resteranno tali per tutta la vita? Il ragazzino che per più di un anno ha vissuto ne suo nido, protetto dalle pareti della sua cameretta, come lo spediremo nel villaggio globale alla ricerca di un posto di lavoro? Avremo una generazione di persone che avranno paura di confrontarsi non solo con il resto del mondo, ma anche con i propri pari nel proprio Paese. Del resto, a un ragazzo che ha fatto la maturità in Dad, il primo anno dell’università e magari anche il secondo a distanza, lei avrebbe il coraggio di mettere in mano un bisturi, quando diventerà medico? Gli inglesi hanno già quantificato questi danni dal punto di vista economico. E in Francia lo Stato paga lo psicologo alle famiglie. Noi cosa stiamo facendo?